Un interessante contributo di Paolo Fasce, esperto del CGD sull’inclusione scolastica

Il 14 gennaio 2017 l’Ufficio Stampa del MIUR pubblica un comunicato dal titolo «La Buona Scuola, da Cdm primo via libera a otto deleghe. “Fedeli: Sono la parte più innovativa della legge. Oggi primo passo: ora parte la fase di ascolto dei soggetti coinvolti. I testi finali saranno frutto della massima condivisione”».

Temo di essere una delle persone indicate dai “soggetti coinvolti” in quanto rappresentante del Coordinamento Genitori Democratici. Ormai più di un anno fa, sono stato indicato da quest’associazione quale suo rappresentante al tavolo dell’inclusione scolastica che avrebbe proprio dovuto costruire questi decreti. Invero sono stato inizialmente contattato e informato dell’esistenza di una cartella informatica condivisa nella quale ci fu chiesto di inserire materiali ritenuti d’interesse, per una condivisione preliminare e informata dei diversi punti di vista. Ho provveduto ad inserire i miei articoli, e non solo miei, sulla “cattedra mista” e ho atteso fiducioso ulteriori indicazioni. Ben presto quello spazio si è riempito di virus e nulla ho più saputo del destino di quel tavolo di discussione/progettazione.

Mi ritrovo quindi a commentare un decreto al quale avrei dovuto contribuire in qualche modo, ma che mi trovo a leggere come tutti gli altri. Non voglio tuttavia sottrarmi dall’impegno di esprimere un punto di vista che nasce da un Ordine del Giorno espresso dal Congresso del CGD che ho scritto e illustrato personalmente e che è stato approvato dal medesimo, e che è il seguente (http://www.genitoridemocratici.it/ordine-del-giorno-approvato-al-xii-congresso-nazionale-cgd-81115/):

«Il CGD sostiene l’inclusione di tutti e di ciascuno. Chiede che vengano attuate tutte le iniziative di riduzione della volatilità della continuità di lavoro degli insegnanti, in particolare di quelli di sostegno, troppo spesso raccolti tra precari non specializzati.

Il CGD indica le seguenti soluzioni:

1) “cattedra mista” per intervenire strutturalmente sull’organizzazione diffusa e sulla percezione degli operatori sulla tematica;

2) formazione diffusa dei docenti, focalizzata sui casi concreti e coordinata;

3) istituzione di supervisori/consulenti pedagogici, insegnanti con distacco parziale, che monitorino il processo dell’inclusione e lo agevolino, onde evitare la sua mera formalizzazione e burocratizzazione, promuovendo dinamiche concrete;

4) specializzazione aperta (non a numero chiuso) per insegnanti abilitati;

5) concorsi per cattedre miste per avere a regime una massa critica di insegnanti diffusi sul territorio e preparati sulle tematiche dell’inclusione;

6) in itinere, il riconoscimento a pieno titolo, su tutti i piani, del lavoro svolto in condizione di precariato.»

Concentrerò la mia attenzione, almeno in questa sede, sullo “Schema di decreto legislativo recante norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità” al fine di fornire quello che avrebbe dovuto essere un contributo alla scrittura del medesimo e che, invece, spero diventi una critica costruttiva e integrativa.

Naturalmente il documento contiene luci e ombre, l’ispettore Raffaele Iosa ha già dato un primo sintetico ma significativo contributo intitolato “Più rose che spine per l’inclusione scolastica” (http://www.pavonerisorse.it/buonascuola/delega_sostegno.htm) nel quale fornisce un punto di vista tecnico e laico degno di attenzione.

Per capire la delicatezza di questo decreto, basti pensare al fatto che modifica in alcune sue parti la legge quadro 104/1992, la pietra miliare dell’integrazione scolastica nel nostro paese.

Ottimo l’articolo 1 che, nella sua generalità, ribadisce una necessaria condivisione della presa in carico da parte di tutta la scuola che, tuttavia, senza le articolazioni opportune, resta un’espressione ideale, ma lontano dal risolvere i problemi concreti. Giacché siamo in un campo ideale, onestamente inserirei qualche riferimento esplicito al “sostegno diffuso” che eviti l’effetto delega all’insegnante specializzato. Nel comma 3 viene incluso tutto il personale e, di conseguenza, anche quello non docente, a volte “sindacalmente riottoso” a partecipare concretamente all’inclusione scolastica, affrontando quelle forme più assistenziali che fanno parte del gioco. Ma non è certo una novità.

Nell’articolo 2, sostanzialmente, si anticipa l’importanza del Piano Educativo Individualizzato, ben noto nel mondo della scuola e sul quale si interviene, che diventa parte integrante del “progetto individuale” che nasce nel contesto della “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali” (art. 14 Legge 328/2000) che viene parimenti modificato.

I sei commi dell’articolo 3 ribadiscono, senza grosse novità, le aree di intervento dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali sulla tematica dell’integrazione scolastica. È tuttavia utile che vengano ribadite molte delle questioni già note e condivido le obiezioni di Iosa alle quali rimando. Mi permetto tuttavia di notare il fatto che la lettera d del comma 2 risulta assolutamente teorico nella scuola secondaria di secondo grado, per la maggior parte degli studenti disabili che scelgono di convergere in gran parte negli istituti professionali. Se lo Stato ribadisce in questa sede che provvede, per il tramite dell’Amministrazione scolastica, “alla costituzione delle sezioni per la scuola dell’infanzia e delle classi prime per ciascun grado di istruzione, in modo da consentire, di norma, la presenza di non più di 22 alunni ove siano presenti studenti con disabilità certificata, fermo restando il numero minimo di alunni o studenti per classe, ai sensi della normativa vigente”, lo Stato stesso non spiega come realizzare materialmente e in coerenza con l’art. 1, quanto indicato, in particolare nel delicato passaggio alla SSSG. È evidente che occorra istituire una cabina di regia, in capo agli Uffici Scolastici Territoriali, che consenta di stornare, anche contro il parere delle famiglie, gli studenti disabili in maniera tale da distribuirli tra le scuole diverse. Ogni tentativo di altra natura, ad esempio a Genova tramite l’impegno degli operatori dei CTS liguri al Salone dell’orientamento, è fallito. Oggi, nella SSSG, abbiamo anche sei studenti disabili in una stessa classe per il semplice fatto che se tutti scelgono l’agrario, l’alberghiero, l’artistico, dove non sempre (quasi mai) ci sono le dieci prime necessarie per accoglierli in classi diverse, si materializzano necessariamente forme di concentrazione. La conseguenza è molto semplice: in virtù della libertà di scelta delle famiglie, si lede il diritto allo studio dei disabili, per il parimenti enorme diritto allo studio di un altro disabile. La conseguenza, perversa, è che in molti licei è possibile, a dirigenti e insegnanti, disincentivare l’iscrizione dei disabili nelle loro scuole, adducendo motivi puerili (“non siamo attrezzati”!) e ottenendo, di fatto, il risultato che i disabili gravino su strati sociali più deboli, quelli appunto che si iscrivono agli istituti tecnici e professionali.

Molto interessante l’articolo 4 che coinvolge l’INVALSI nella valutazione della qualità dell’inclusione scolastica. Esistono modelli ormai ben noti a livello accademico e sperimentale, il primo dei quali è l’Index per l’inclusione, che se usato sistematicamente metterebbe a nudo molte ipocrisie e retoriche che leggiamo a profusione nei Piani Annuali dell’Inclusione, introducendo strumenti ai quali non si può rispondere facendo spallucce, con ovvie ricadute positive in questo settore che si troverebbe in una corrente che porta automaticamente nella direzione voluta.

A mero titolo di esempio, una seria autoanalisi basata su questionari preparati da enti esterni, come l’INVALSI, consentirebbe di capire se ci sia una significativa presenza di sostegni diffusi, se il piano di lavoro è quello bio-psico-sociale, se la delega e l’ “isolazione” è preponderante interferenza. Il feedback di tali rilevazione, potrebbe dare strumenti d’intervento allo stesso Collegio dei Docenti e al GIT, laddove questo fosse inerte o peggio.

L’articolo 5 trasforma la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale in una “valutazione diagnostico-funzionale … di natura bio-psico-sociale della disabilità ai fini dell’inclusione scolastica”. I criteri di realizzazione di tale nuovo documento saranno chiariti successivamente, ma si farà riferimento ad ICD e ICF.

L’articolo 6 che definisce la composizione delle commissioni mediche deputate alla rilevazione della condizione di disabilità ed è interessante il comma 2 che coinvolge l’amministrazione scolastica giacché «Ai fini della predisposizione della valutazione diagnostico-funzionale di cui all’articolo 5, le Commissioni di cui al comma l, come modificate dal presente articolo, sono integrate, nell’ambito delle risorse disponibili a legislazione vigente, da un terapista della riabilitazione, un operatore sociale e da un rappresentante dell’Amministrazione scolastica con specifiche competenze in materia di disabilità, nominato dall’Ufficio scolastico regionale competente per tetritorio e scelto tra i docenti impegnati in progetti e convenzioni di rilevanza culturale e didattica, di cui all’articolo l, comma 65, della legge 13 luglio del 2015 n. 107». Giacché le Commissioni mediche, come definite nell’appena citato comma, sono chiamate a realizzare il “progetto individuale”, e «individuano per ciascun soggetto e successivamente alla predisposizione della valutazione diagnostico-funzionale, le tipologie di prestazioni sociali e sanitarie e le quantificano», di fatto spianano la strada al lavoro del Gruppo Inclusione Territoriale (GIT) che al comma 5 si legge che è l’organismo deputato alla “quantificazione delle risorse di sostegno didattico”. Mi pare che con questa modalità, di fatto si trasferisca “in cabina di regia” il numero di ore di sostegno per ciascun alunno e, con questa modalità, le famiglie si vedranno preclusa la via giudiziaria allorquando questa era spianata dalla lettura di un PEI (gestito localmente dalla scuola) nel quale le ore potevano essere indicate opportunamente o ad arte. Esprimo un dubbio sulla possibilità materiale del rappresentante della scuola nella commissione medica. Se da un lato la sua presenza aiuta a definire il numero di ore non già solo secondo parametri medici (ci sono studenti con 104 che non hanno davvero bisogno dell’insegnante di sostegno, pur avendone diritto; si pensi ad una persona affetta da nanismo), dall’altro è necessario che il suo parare nasca da una conoscenza del caso che non nasce solo da un colloquio con il bambino/ragazzo e con la famiglia, ma con approfondimenti sul caso specifico. Ne avrà la possibilità materiale?

Non so immaginare da quante persone sia composto questo GIT, quali poteri di interlocuzione abbia con le scuole, ad esempio dei gradi precedenti, al fine di valutare e quantificare in maniera adeguata il numero di ore di sostegno su ciascun caso. Il rischio è quello di avere una disomogeneità territoriale tra regioni diverse nelle quali in alcuni casi si provveda meramente a gonfiare le ore assegnate per comprensibili motivi di tipo occupazionale di origine sociale o elettoralistica, dall’altro si stringano troppo le maglie in ossequio al timore di “isolazione” per come questo termine è utilizzato da Iosa. Temo che, molto banalmente, ogni regione sia chiamata a gestire un prefissato numero di ore che dipendono, come in passato, da pressioni politiche più o meno forti, degenerando in disomogeneità variamente rilevate, ad esempio nel dossier di Tuttoscuola.

Resta anche parimenti delicata la questione del fit tra studenti ed insegnanti, le loro professionalità focalizzate (presenti o assenti) in funzione degli specifici casi e le conseguenti diverse esigenze quantitative. Sto parlando delle “iperspecializzazioni” che ci sono e che non sono tenute in alcuna considerazione, ma ci torno più sotto con un esempio.

Per comprendere la delicatezza della questione, possiamo facilmente immaginare come un insegnante specializzato e perfezionato possa gestire un caso con un certo numero di ore, mentre uno assunto da graduatorie d’istituto e senza esperienza alcuna, potrebbe avere bisogno di molte più ore. Un insegnante stabilizzato su un caso, nel corso degli anni, potrebbe avere bisogno di meno ore di uno che prende in carico il nuovo caso. Una valutazione del numero di ore che tenga in conto anche queste questioni, potrebbe indurre lo Stato a migliorare le condizioni al contorno. Mi spiego: se ho un numero adeguato di insegnanti di sostegno specializzati e stabilizzati sul caso (non già “sul posto di lavoro”, ma esplicito: sul caso), il numero di ore necessarie potrebbe essere inferiore, mentre il precario, avendo bisogno di più ore, costerebbe di più. Oggi avviene l’inverso e le conseguenze sono tanto evidenti quanto esiziali.

Trovo che il GIT potrebbe svolgere anche il ruolo di “cabina di regia” per la distribuzione degli studenti della SSSG in maniera più uniforme, onde evitare le ipocrisie che questo decreto non sana perché non affronta strutturalmente questa questione alla quale va data una risposta, altrimenti perderemo un’occasione e ci lagneremo di questa questione per almeno un altro decennio.

L’articolo 7 delinea la “Procedura per l’inclusione scolastica degli alunni e degli studenti con disabilità”, mentre l’articolo 8 riscrive l’articolo 15 della Legge 104/1992: «Per ciascuno degli Ambiti Territoriali di cui all’articolo 1, comma 66, della legge 13 lugliò 2013, n. 107, è istituito il Gruppo per l’Inclusione Territoriale (GIT) [che altri non è che il vecchio GLIP]. Il GIT è composto da un Dirigente tecnico o un Dirigente scolastico che lo presiede, tre Dirigenti scolastici dell’ambito territoriale; due docenti, uno per la scuola dell’infanzia e il primo ciclo di istruzione e uno per il secondo ciclo di istruzione, nominati con decreto del dirigente preposto all’Ufficio Scolastico Regionale (USR) o di un suo delegato. Il GIT, in qualità di organo tecnico, sulla base delle valutazioni diagnostico-funzionali, del progetto individuale e del Piano per l’inclusione trasmessi dalle singole Istituzioni scolastiche statali, propone all’USR la quantificazione delle risorse di sostegno didattico per l’inclusione da assegnare a ciascuna scuola; l’assegnazione definitiva delle predette risorse è effettuata dall’USR nell’ambito delle risorse dell’organico dell’autonomia per i posti di sostegno». Giacché nel Comma 2 già si immaginano “ulteriori funzioni per il supporto all’inclusione scolastica del GIT”, se ne potrebbero esplicitare qui altre: inibire questa o quella scuola alla partecipazione di progetti, e al conseguente ottenimento di fondi, allorquando non svolga un ruolo attivo nell’accoglienza (e conseguente diffusione) degli studenti disabili nella propria scuola (è il caso, spesso, dei licei); eventuale inibizione ai fondi nel caso di rilevata discrasia tra quanto dichiarato nel PAI e quanto rilevato nella scuola (a seguito di visite ispettive o equivalenti). Ma oltre al bastone, occorrerebbe dotare questo organismo della carota: personale qualificato “di rete” che svolga il ruolo di supervisore, in particolare nelle transizioni, anche al fine di portare nella scuola quel “sapere specialistico” da molte famiglie invocato. È il punto 3 dell’Ordine del Giorno del congresso CGD.

L’articolo 9, brevissimo, si riporta tale e quale: «Il Piano Educativo Individualizzato è parte integrante del Progetto individuale. A tal fine, all’articolo 14, comma 2, della legge 8 novembre 2000, n, 328, dopo le parole “valutazione diagnostico-funzionale” sono aggiunte le seguenti: “, il Piano Educativo Individualizzato a cura delle Istituzioni scolastiche”».

L’articolo 10 attribuisce al Dirigente scolastico l’iniziativa dell’elaborazione del Piano per l’Inclusione che, deliberato dal Collegio dei Docenti, è parte integrante del PTOF. Il piano indica le barriere e i facilitatori del contesto (linguaggio di chiaro stampo ICF) e gli interventi di miglioramento. Resta dubbio di quali possano essere le conseguenze di un eventuale conflitto tra DS e CD che, talvolta si registra sul territorio. Probabilmente, l’eventuale mediazione tra questi, potrebbe essere una delle possibili ulteriori funzioni del GIT (troppo spesso, nella scuola, mancano “figure esterne” di mediazione dei conflitti interni).

L’articolo 11 ridisegna il comma 5 dell’art. 12 della L.104/92 e ha destato qualche preoccupazione in alcune famiglie che hanno immaginato uno svilimento del loro ruolo alla lettura del seguente passo: «La redazione avviene all’inizio dell’anno scolastico con la collaborazione dei genitori o del soggetto con responsabilità genitoriale, delle risorse professionali specifiche assegnate alla classe nonché degli operatori socio sanitari». L’ispettore Iosa scrive: “SOS: Manca la famiglia!”. Invero la parola “collaborazione” è rimasta tale e quale quella dell’articolo originale della 104/92, quindi nulla è cambiato in questo senso, ma spariscono gli operatori delle unità sanitarie locali tra i firmatari del documento. Probabilmente sono presenti a monte, col “progetto individuale”, oppure si tratta di un refuso che andrà corretto.

L’articolo 12 è contemporaneamente deflagrante quanto inutile e va intelligentemente modificato (laddove questo vocabolo va interpretato alla luce delle conoscenze della teoria dei giochi e degli interessi delle parti da comporre). In buona sostanza si impone agli insegnanti di sostegno un permanere in questo ruolo per dieci anni, invece di cinque. L’idea, ingenua, naturalmente è quella di dare maggiore stabilità a questo mestiere, limitandone le fughe verso il posto comune. Nei fatti non interviene per nulla sulla stabilizzazione dell’insegnante di sostegno specializzato sul caso specifico per svariatissime ragione. Senz’altro doveroso il riconoscimento del servizio prestato in epoca antecedente all’assunzione in ruolo, ma è un contentino per gli insegnanti che, tuttavia, lascia intatto il problema degli studenti. È bene esplicitare il fatto che una cosa è la stabilizzazione su posto di sostegno (assunzione a tempo indeterminato) e una cosa è la stabilizzazione sul caso (la continuità didattica invocata dalle famiglie, almeno quando le cose vanno bene).

Su questo tema la mia posizione è forte e la controproposta, credo, assai convincente. Al netto del fatto che gli insegnanti di sostegno in ruolo oggi sono spesso mobili e l’essere in ruolo per più tempo non garantisce la stabilizzazione su un caso (basti pensare alle assegnazioni provvisorie, al cambio per trasferimento, all’enorme transitorio di questi due anni a seguito della “Buona scuola”) la soluzione più ovvia è quella della cattedra mista, istituita in forma incentivante e che è lo strumento per una diffusione della condivisione dei “sostegni diffusi” che nasce da consapevolezza professionale, sostenuta da esperienze che bisogna avviare in maniera sistematica. Sottolineo il cambio di paradigma: non più la visione di questo mestiere come un calvario da attraversare, più o meno lungo, per arrivare ad una cattedra, ma un’evoluzione di carriera che, addirittura, consente una elasticità stipendiale valorizzante. Mi spiego. Occorre innanzi tutto liberalizzare la specializzazione sul sostegno che non può più essere “a numero chiuso” con selezione in ingresso, ma con ben poche possibilità di fermare persone inadeguate (parlo alla luce della mia piccola esperienza di supervisore di tirocinio all’Università, proprio in questo ruolo), perché diventi aperta a tutti i richiedenti, ma con forme di selezione psicoattitudinali. Gli insegnanti specializzati, oggi ci sono e, non sempre, sono apprezzati dall’utenza, ci siamo mai chiesti perché? La cattedra mista si costruisce a partire dalle premesse: tutti specializzati sul sostegno (tutti quelli che vogliono, beninteso, ma che molti vorranno per quanto vado ad esplicitare). Con una massa di specializzati significativa, l’assunzione sul sostegno si può trasformare in cattedra mista già al terzo anno, per poi svilupparsi a vita, ma per scelta. Perché dovrebbe diventare una scelta di vita è presto detto: un incentivo di fatto economico, e di accesso al ruolo, perché la cattedra mista potrebbe diventare “ad orario elastico”. In sintesi, la cattedra potrebbe diventare di 20 ore. Provo qui di seguito a descrivere la situazione in una forma dal sapore burocratico-ministeriale:

Art. 12 comma 2: «I docenti assunti a tempo determinato sui posti di sostegno, in possesso dei requisiti e comunque nel limite dei posti vacanti e disponibili nell’organico dell’autonomia, passano alla modalità di cattedra mista dopo cinque anni, salvo richiesta di permanenza completa su posto di sostegno e laddove sia materialmente possibile in funzione delle classi di concorso in possesso dell’insegnante. La permanenza in modalità di cattedra mista è per ulteriori cinque anni, estendibili a piacere. L’insegnante può anticipare la richiesta di passaggio a cattedra mista a partire dal terzo anno di ruolo, prorogando oltre il decimo anno con un travaso compensativo. L’insegnante di cattedra mista non potrà superare 12 ore di insegnamento su posto comune, ma avrà diritto, su richiesta, all’estensione dell’orario di lavoro a 20 ore, potendo raggiungere le 24 ore, laddove queste siano disponibili, prima di ricorrere a personale assunto a tempo determinato. Ai fini del computo della permanenza su posto di sostegno, anche secondo la modalità della cattedra mista, è considerato anche il servizio prestato sul posto di sostegno in epoca antecedente all’assunzione in ruolo a tempo indeterminato, computato fino ad un massimo di 8 anni». È evidente, almeno a me che ho lavorato per nove anni come insegnante di sostegno, quattro dei quali come “insegnante di cattedra mista” (secondo l’articolazione materialmente possibile delle ore aggiuntive), che dopo avere lavorato per dieci anni in entrambi i ruoli, ben difficilmente si vorrà “fuggire dal posto di sostegno” giacché svolgere quelle funzioni tanto a lungo, godendo di soddisfazioni anche nell’ambito della propria disciplina, e il possibile “diritto all’incentivo economico”, che decadrebbe con una cattedra interamente sulla disciplina, consentirebbero davvero di stabilizzare quell’insegnante su quel caso. Ripeto: stabilizzare sul caso (quindi per davvero!). L’elasticità del numero di ore di cattedra è la chiave di volta che rende possibile questa opzione. L’incentivo professionale (insegnanti “bis abili”) ed economico (estensione dell’orario di lavoro per diritto), quello che la sostiene. La soddisfazione è di tutti e consente di avviarci speditamente verso il paradigma dei “sostegni diffusi” perché l’insegnante di materia sarà molto più spesso anche di sostegno e perché la tribù degli insegnanti di sostegno non sarà più un “mondo a parte”, ma davvero integrato nelle dinamiche degli insegnanti.

Faccio notare alcune cose: la coerenza della cattedra mista con l’organico dell’autonomia che emerge nella Legge 107/2015. Oggi le scuole hanno chiesto personale su certe classi di concorso, ma per svuotare le graduatorie ad esaurimento, queste richieste non sono state rispettate. Ci troviamo quindi a scuola persone che fanno potenziamento, non potendo insegnare materialmente neanche un’ora per il mancato fit tra scuola-classe di concorso dell’insegnante, e fanno “sostegno mascherato”. Di fatto sono impegnati come insegnanti di sostegno (vanno dove c’è bisogno, e dove c’è bisogno? Dove ci sono studenti disabili). Naturalmente queste risorse consentono un’altra forma di “sostegno diffuso”, ma preferirei fossero (generalmente) specializzati. Credo che gli insegnanti di potenziamento impossibilitati a rientrare sulla materia, non già per i cinque o dieci anni di vincolo, ma perché insegnano una materia che in quella scuola non c’è, dovrebbero essere coinvolti, come di recente è avvenuto per molti insegnanti tecnico pratici candidati alla soprannumerarietà, in percorsi di specializzazione ai quali aderirebbero perché, in questo modo, aumenterebbero le probabilità di passare alla materia, seppure in modalità mista, dove ci fossero degli spezzoni. Otterremmo, contemporaneamente, una riduzione del fabbisogno di insegnanti precari, che spesso costruiscono punteggio e aspettative proprio sugli spezzoni. E quale profilo di insegnante è correlato a quello che si costruisce a partire da anni di precariato così disordinato? Quale psicologia e senso della professionalità si costruisce in questo modo? Quello del professionista sfiduciato e rancoroso, incapace di vedere il proprio mestiere per quello che è, ma per quello che ha subito.

A regime, con la cattedra mista, ogni insegnante sarà più duttile e capace di fare sostegno con una preparazione ad hoc, implementando in maniera più capillare il “sostegno diffuso” e i sostegni. A regime, la maggior parte degli insegnanti sarà anche di sostegno. Nessuno avrà più dubbi, tranne casi patologici, sul fatto che l’inclusione è a carico di tutti. Oggi, non di rado, quando un insegnante di sostegno passa sulla materia, non sempre lo fa in maniera evoluta, proprio perché il lato oscuro del vincolo quinquennale o quello decennale è il seguente: ieri è toccato a me, oggi tocca a te, ora tu stattene lì e cuccati il disabile che io faccio lezione. Occorre evitare di costruire questo tipo di psicologie.

Un ulteriore strumento riequilibratore è il “concorso per cattedra mista” (punto 5 dell’Ordine del Giorno del congresso CGD). Pochi hanno il coraggio di esplicitare, per ovvi motivi relazionali, il fatto che gli insegnanti di sostegno sono, perlopiù, appartenenti a classi di concorso “che non hanno mercato”. Ci ritroviamo ad avere forte bisogno di un supporto anche tecnico/disciplinare in classe per questo o quello studente (o per questo o quell’insegnante) senza poter dare una risposta concreta. Quando mi specializzai sul sostegno, studiammo una sentenza nella quale una famiglia vinceva un ricorso perché la figlia, iscritta al liceo classico, aveva un insegnante di sostegno di scienze motorie. Beninteso il ruolo dell’insegnante di sostegno non è solo quello di “dare piccole ripetizioni personalizzate”, ma avendo fatto questo mestiere dalla prospettiva dell’ingegnere elettronico, so di essere stato utile in molte discipline a tutta la classe, proprio per il fatto che matematica, fisica, informatica, elettronica e l’area scientifica in genere mi era ben più nota che ad rispettabilissimo laureato in giurisprudenza. Immaginiamo che la scuola tale abbisogni per il proprio potenziamento di un insegnante misto di matematica, ebbene, nel concorso per il sostegno si scriverà: n posti di sostegno, di cui uno con classe di concorso in matematica. Le aree sono state abolite, non già perché gli insegnanti di quelle che sono le materie che servono, lo dico con una brutalità che ha il solo vantaggio della sintesi, erano comunque pochi, ma perché molta parte del sostegno era assorbita dall’AD03 (area tecnica) che è sempre stata intrinsecamente disomogenea. Mai una scuola di elettronici ha potuto attingere da quell’area un insegnante specializzato sul sostegno che fosse abilitato in elettronica, quasi sempre si sono ritrovati in mano un giurista. Naturalmente i giuristi, nei corridoi delle scuole e nei colloqui coi genitori, legittimamente affermano “ma tanto facciamo la stessa cosa”, il che è solo parzialmente vero, come è ovvio a chiunque entri in classe. In buona sostanza, si guardino le distribuzioni degli insegnanti di materia delle classi di concorso alle medie e si raffronti questa distribuzione con le classi di concorso dei colleghi di sostegno. Il coefficiente di correlazione è tanto più vicino a uno, quanto più sono coerenti queste due distribuzioni. Più ci allontaniamo da questo numero, più il sostegno è da intendersi, mi perdonino i duri e puri, come uno stipendificio. In breve, la cattedra mista insiste su quelle richieste di “utilità” che tanto vediamo elevare dalle famiglie, mentre la “cabina di regia” che potrebbe assumere il GIT, potrebbe lavorare sull’altra criticità che è quella del fit tra studente e insegnante profilato. Faccio un esempio che scava nella mia biografia. Ho lavorato per diversi anni con studenti nello spettro autistico. Ho conseguentemente maturato un’esperienza e ho ritenuto di prepararmi meglio su questa tematica, conseguendo un master sulla pedagogia e didattica degli alunni con funzionamento nello spettro autistico. Ho coniato la locuzione “funzionamento nello spettro autistico” che trovo più adeguata di “disturbo nello spettro autistico”. Dopo essere passato di ruolo, ho messo sul piatto questa “iperspecializzazione”, tirato per la giacchetta, e complice, dalla famiglia di quello studente che seguivo prima di entrare in ruolo. Ero, in sintesi, disponibile a lavorare su due scuole, a sorbirmi due collegi dei docenti, a fare avanti e indietro nella stessa mattina su due plessi, al mero fine di tutelare quel ragazzo col quale avevo lavorato tre anni. È stato possibile? No. La reazione della dirigente della scuola accogliente è stata “ma chi si crede di essere questo qui?”. Lo studente si è poi maturato con 60/100 e ancora mi domando se i commisari sapessero che uno studente nello spettro elabora risposte secondo schemi mentali complicati e attende anche 30 secondi prima di rispondere. Ne avranno tenuto conto?

Quindi oggi, anche dove ci sia buona volontà, non c’è possibilità materiale di continuità e di fit tra studente e insegnante. Siamo in un sistema che strutturalmente rende difficile ciò che sarebbe tuttavia possibile. Al GIT dovrebbe essere dato il potere di governare queste questioni, bypassando anche dirigenti riottosi e, almeno, approfittando delle disponibilità di quella che, mi sento di dire, è la parte migliore del corpo insegnante.

Occorre quindi un terzo comma dell’art. 12 nel quale istituire il concorso per cattedre miste che dovrebbero nascere sollecitate dalle scuole per il proprio organico dell’autonomia. Faccio un esempio materiale: io sono disponibile a tornare sul sostegno su cattedra mista; nella mia scuola, quindi, si liberano delle ore di cattedra sulla materia. Ma tali ore sono sulla mia materia, non su quella del collega assunto sul potenziamento, quindi la mia scuola abbisognerà di un insegnante misto simile a me, altrimenti scaricheremo la discontinuità didattica dal sostegno alla materia, mentre sarebbe auspicabile salvare capra e cavoli, se si può. E si può.

Non ho speso un rigo di questo trattato sull’istituzione della cattedra mista nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria. Lo faccio ora: non ci sono ostacoli di alcun genere all’implementazione diffusa di questa modalità che, nella secondaria, trova un ostacolo nelle classi di concorso e trova la sua soluzione nel polmone del potenziamento ottenuto con l’organico dell’autonomia. Scrivere una norma coerente che sancisca quest’opzione nella scuola dell’infanzia e primaria è quindi banale. Resta il fatto che c’è enorme differenza tra rendere la cosa possibile e istituzionalizzarla. Lo sa chiunque abbia programmato ad oggetti con un linguaggio di programmazione che lo consente, o che lo supporta.

Gli articoli 13 e 14 contengono le indicazioni per i corsi di specializzazione per le attività di sostegno didattico agli alunni con disabilità nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria (il primo) nella scuola secondaria di primo e secondo grado (il secondo). Ho già anticipato cosa occorrerebbe inserire in questi capitoli. La liberalizzazione della specializzazione (limitata dai posti materialmente disponibili nelle università, non da quelli assegnati dal MIUR; faccio notare che lo scrivente, generalmente apprezzato come insegnante di sostegno, si è specializzato alla Cà Foscari di Venezia con quasi un altro migliaio di persone, impegnato in una formazione blanded che mi portava a lezione in presenza nei week end e a lavorare in maniera duttile, ma impegnativa, con gli impegni on line; di fatto, avere migliaia di candidati su cattedra mista da dopodomani è ampiamente possibile; non sono un caso isolato, posso testimoniare che la stragrande maggioranza di colleghi che viaggiava con me sulla tratta Genova-Venezia per specializzarsi, è oggi della mia stessa pasta).

Va quindi cancellato il punto d del comma 2 di entrambi gli articoli, magari riscritto per esplicitare l’apertura alle specializzazioni liberalizzate che favoriranno i sostegni diffusi. Nel comma 5 espliciterei già il fatto che nella percorso formativo, oltre a tirocinio ed esami, il collegio dei docenti sarà chiamato a formulare un parere vincolate di ordine psicoattitudinale, consentendo l’eventuale rimborso della quota d’iscrizione a tutti quelli “respinti”.

Per quel che riguarda l’art. 14, inserirei la possibilità di candidarsi alla specializzazione, anche senza un’abilitazione pregressa, secondo profili d’ingresso particolarmente pregiati (questi sì, decisi dal MIUR). Penso in particolare a psicologi che non hanno accesso a classi di concorso “che hanno mercato” (solo “pedagogia, filosofia e psicologia”, con un bouquet di CFU vincolante), ma che sul sostegno sarebbero particolarmente profilati, e a laureati in discipline tecniche, di cui c’è particolare bisogno, ai quali occorre dare un canale privilegiato perché altrimenti sarebbero schiacciati dalla massa dei laureati in “discipline inutili” (mi scuso ancora per la brutalità dell’espressione). In buona sostanza, tutti oggi proviamo a dire ai nostri figli di scegliere, se possibile, corsi di laurea con una qualche prospettiva occupazionale e ci ritroviamo con masse di laureati in discipline senza mercato. Nulla da eccepire sulle scelte individuali, ma poi questi laureati devono essere allocati (e votano). Privilegiare chi ha fatto una scelta appropriata a suo tempo, senza schiacciarlo per demagogie elettoralistiche, mi pare cosa buon e giusta. E adulta. Naturalmente questi profili, una volta a scuola, non potranno accedere alla cattedra mista fino a quando non otterranno un’abilitazione (cosa che potrebbe avvenire periodicamente, diciamo ogni 5/8 anni, con corsi riservati).

L’art. 15 proroga la fumosità materiale dell’aggiornamento che, a mio parere, era già obbligatorio a partire dalla legislazione precedente, come emerge addirittura dalla lettura del CCNL, e che, diventando “strutturale, permanente e obbligatorio” resta tuttavia vago perché interpretabile. È tema spinoso, ma se non si scrive nero su bianco che i docenti, come per gli ordini professionali, devono maturare dei “crediti formativi” e chi e come questi vengano erogati, tutto resta nel limbo. Si abbia il coraggio di scrivere che i docenti devono maturare 60 ore di formazione ogni biennio, che possiamo chiamare “crediti formativi” come negli ordini professionali, 20/40 delle quali costruite “in casa”, 20/40 delle quali raccolte sul territorio, riportate al Collegio dei Docenti e da questo validate anche alla luce dei rapporti col territorio. Se si rifugge il “quanto”, non si riuscirà mai a sollecitare un “come” concreto. A titolo di esempio porto la formazione del PNSD che organizzo in veste di Animatore Digitale della mia scuola. È stata fruita da un terzo del corpo docente e chi è refrattario a questa formazione, raramente è perché iperimpegnato altrove. L’obbligo quantificato ha dei problemi nel ramo della motivazione, ma veniamo da due decenni di affidamento alla professionalità individuale che è risultata schiacciata dalla vita quotidiana, se non dalla mera latitanza.

L’art. 16 “Continuità didattica”, di fatto istituisce la possibilità materiale di diffondere le cattedre miste giacché «Per valorizzare le competenze professionali e garantire la piena attuazione del piano annuale di inclusione, il Dirigente scolastico propone ai docenti dell’organico dell’autonomia di svolgere anche attività di sostegno didattico, purché in possesso della specifica specializzazione, in coerenza con quanto previsto dall’articolo 1, commi 5 e 79, della legge 13 luglio del 2015 n. 107». Immaginiamo che domani mattina il mio dirigente mi faccia questa proposta. Chi mi sostituirebbe nelle classi? Un insegnante precario, vanificando lo stesso titolo dell’articolo. È per questo che, per funzionare non solo in maniera sporadica (cioè coi pochissimi casi come il mio), ma a livello di sistema, occorrono i concorsi per cattedre miste. Per quel che riguarda il comma 1, mi pare pleonastico se non si lavora concretamente su una specializzazione massiva. Anche se oggi abbiamo decine di migliaia di insegnanti specializzati e in ruolo, sempre oggi abbiamo diverse migliaia di insegnanti non specializzati e pescati da graduatorie d’istituto molto variegate che spaziano da precari storici a ultimi arrivati, spesso molto “ingenui”. Altre volte, le famiglie li preferiscono ad insegnanti specializzati demotivati.

Il comma 3 è senz’altro da migliorare. L’assunzione biennale diventi triennale e, in ossequio alla normativa europea, si inserisca una forma di gradimento del contesto scuola con valore concorsuale (DS, GIT ed eventuali portatori d’interesse) sull’insegnante che, assunto al quarto anno, faccia convergere il contratto su quello a tempo indeterminato.

L’art. 17 istituisce l’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica dalla quale, tuttavia, non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Immaginiamo che allo scrivente venga attribuito l’onore di parteciparvi. Vado a Roma alle riunioni pagandomi il treno? Penso sia noto lo stipendio di un insegnante. Beninteso, nell’era di internet, gran parte del lavoro si può sviluppare in altre forme, ma un gettone di presenza e forme di rimborso mi parrebbero opportune, salvo ISEE superiore ad una certa soglia (i professori universitari e gli ispettori, per intenderci, “possono permetterselo”). La gratuità, ad ogni modo, mi sembra contrastante con l’art. 36 della Costituzione dove si legge che: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”. Non è forse vero che ci colà andrà a sedere, rappresenterà profili professionali elevatissimi?

Nulla da eccepire sull’art. 18 (Istruzione domiciliare) e i successivi (19 Abrogazioni, 20 Decorrenze e 21 Copertura finanziaria). Invero il comma 5 dell’art. 20 va migliorato come segue: «Il vincolo di permanenza di cui all’articolo 12, comma 2, si applica al personale docente assunto sui posti di sostegno a decorrere dall’anno scolastico 2018/19. Al personale docente assunto a tempo indeterminato sui posti di sostegno entro l’anno scolastico 2017/2018, continua ad applicarsi il vincolo quinquennale di permanenza sulla predetta tipologia di posto, a meno che il passaggio alla nuova disciplina sia ritenuto più favorevole». In buona sostanza, siccome chi entra sul sostegno con la nuova disciplina può computare gli anni di precariato nei dieci di permanenza, si potrebbero verificare dei piccoli paradossi. Espliciterei anche il possibile passaggio a cattedra mista: «Il personale assunto a tempo indeterminato sui posti di sostegno entro l’anno scolastico 2017/2018, può richiedere il passaggio a cattedra mista, aggiungendo al quinquennio un numero di anni pari a quello di fruizione di questa modalità nel quinquennio medesimo».

Mi sembra interessante il fatto che il GIT venga finanziato esplicitamente nel comma 4 dell’art. 21, anche se si tratta di uno spostamento di risorse da un capitolo ad un altro. Trovo la cosa incoraggiante, conoscendo le “condizioni di deprivazione materiale” del gruppo di lavoro che si occupa oggi di queste cose nelle stenze del mio Ufficio Territoriale.

La mia conclusione è semplice. Questo decreto, che secondo Iosa contiene “più rose che spine” rischia di essere un pannicello caldo sulle questioni che non affronta a livello di sistema, ma meramente come “cacciavite”. Importante, sì, ma che darà qualche sollievo locale, senza un salto di qualità sistemico che, mi pare, è davvero alla portata non già “consentendo la cattedra mista” (cosa che accontenterebbe entusiasti come me, ma che non farebbe sistema) ma sostenendola come nuovo paradigma inclusivo: più insegnanti contenti di lavorare in questa modalità. Occorre infatti crudamente notare che non è affatto vero che le persone che restano volontariamente sul sostegno oltre il vincolo quinquennale, lo facciano per portare maggiore qualità all’inclusione scolastica. Purtroppo spesso lo fanno meramente per non correggere compiti a casa e per avere perduto il feeling con la propria disciplina. Sono una parte di quegli insegnanti di cui le famiglie si lamentano

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